Qualcuno ricorderà l’ovazione del Teatro Brancaccio di Roma durante la manifestazione “Equo compenso: un diritto” che il 30 novembre del 2017 vide raccolti 1500 liberi professionisti appartenenti a tutti gli ordini professionali sotto le sigle di RPT e CUP. Proprio a manifestazione in corso, mentre sfilavano in una maratona oratoria decine di politici appartenenti a tutti i gruppi parlamentari e che portavano il loro sostegno al mondo delle professioni, giunse la notizia dell’approvazione decisiva della legge di conversione del decreto 148 del 2017. Dopo pochi giorni, e conclusi gli ultimi passaggi formali, l’equo compenso sarebbe diventato definitivamente un diritto stabilito dalla legge 172 del 2017.
Ecco, sono passati ben quattro anni e nonostante alcuni interventi migliorativi di quella norma l’Italia ancora non ha nel suo corpo normativo una legge organica che stabilisca in maniera chiara ed uniforme cosa sia l’equo compenso e quale sia il suo ambito di applicazione.
Ci si sta provando proprio in queste settimane ed in realtà un passo che sembrerebbe determinante lo ha fatto la Camera dei Deputati: lo scorso 13 ottobre ha approvato il provvedimento a prima firma Meloni, che reca esattamente “Disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali”. A questo testo si è giunti dopo un articolato lavoro parlamentare che ha subito anche degli stop a causa di alcuni rilievi della Ragioneria generale dello Stato sull’impatto finanziario della misura e che è stato orientato in particolare a costruire un impianto omogeno per l’applicazione dell’equo compenso sia alle professioni ordinistiche sia a quelle cosiddette non ordinistiche.
Sul piano politico, e vista la genesi del provvedimento frutto dalla sintesi di tre proposte di legge presentate dai gruppi parlamentari di centrodestra, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, l’approvazione alla Camera avrebbe dovuto rappresentare il trionfo dei gruppi di centrodestra che avrebbero avuto modo di rivendicare la battaglia in favore di una fetta importante di tessuto produttivo e di elettorato moderato. In realtà l’evento è stato accolto in maniera abbastanza tiepida dalle rappresentanze in particolare per la formulazione dell’articolato talvolta troppo aperta ad interpretazioni e, date le numerose condizioni poste per definire l’ambito di applicazione, troppo tagliata su una fetta di committenti che rischia di essere poco rilevante in termini quantitativi.
Altri punti poco chiari riguardano il ruolo che gli ordini devono avere rispetto alle potenziali mancate applicazioni della futura norma e quello, tutt’altro che secondario, del giudice che avrà il compito, accertato il carattere non equo del compenso pattuito, di rideterminarlo condannando il cliente al pagamento della differenza tra l’equo compenso individuato e quanto già versato al professionista.
Questa parte della proposta di legge, ritengo, desta particolare preoccupazione soprattutto in riferimento ai rapporti dei professionisti con la pubblica amministrazione sui quali la giurisprudenza sta già assumendo un orientamento molto chiaro: con la recente sentenza n. 9404/2021 il Tar Lazio ha stabilito che per la pubblica amministrazione la disciplina dell’equo compenso trova applicazione non entro i rigidi parametri dei decreti ministeriali, ma deve intendersi connesso a parametri di maggiore flessibilità definiti, da un lato, da esigenze di contenimento della spesa pubblica e, dall'altro lato, dalla natura ed dalla complessità delle attività da svolgere in concreto.
In sostanza, occorre che il Senato nella sua prossima lettura punti ad un nuovo ciclo di ascolto delle rappresentanze professionali per raccogliere utili suggerimenti; apportare le necessarie limature al testo risulterà risolutivo per consegnare ai professionisti una legge che li tuteli davvero ed ai committenti elementi di migliore orientamento.