Nel corso della recente cerimonia di fine cancellierato, Angela Merkel ha voluto essere accompagnata da una canzone sconosciuta ai più, ma nota in Germania sin dalla fine degli anni 60, dal titolo “Per me devono piovere rose rosse”. La canzone di Hildegard Knef, provocatoria per l’epoca in cui fu scritta, recita: ”Dovrei adattarmi e accontentarmi/ma non voglio farlo/Voglio ancora vincere/Per me devono piovere rose rosse/nuovi miracoli mi devono accompagnare/devono di nuovo farmi emancipare dal passato”.

Per molti osservatori la scelta di quella canzone rivela, come è stato scritto, “il carattere volitivo e sognatore” dell’ex Cancelliera. Ci piace pensare che quelle parole descrivano bene la giusta volontà di autoaffermazione delle donne, una volontà che tuttavia si scontra spesso, ancora oggi, con il permanere di divari di genere e scarso riconoscimento del merito delle donne.

Siamo partiti da molto lontano, scomodando vecchie canzoni ed il diritto alla parità di genere, perché in Italia e nella grande maggioranza (forse la totalità) dei Paesi questa parità tarda ad arrivare; anzi i divari rischiano di allargarsi. E’ bene, pertanto, ricordare il contesto in cui ci troviamo e capire l’entità del problema che, peraltro, diventa più acuto proprio nell’ambito del lavoro professionale.

Gli ultimi dati Istat mettono in evidenza come il tasso di attività femminile (la quota di popolazione femminile che intende partecipare al mercato del lavoro) risulti sistematicamente molto più contenuto di quello maschile: attualmente esso si attesta al 55% a fronte del 73% per gli uomini.

Le donne sono più scoraggiate dall’entrare nel mercato del lavoro e sono, soprattutto in presenza di shock, le prime ad abbandonare il lavoro. Questa discontinuità, che è meno rilevabile tra gli uomini influisce sulla determinazione del tasso di disoccupazione, su quello di inattività e sul tasso di occupazione ed è in larga misura riconducibile agli impegni più gravosi cui le donne sono sottoposte, a cominciare dalle difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro con quello della famiglia, fino ad arrivare alla maggiore difficoltà di raggiungere ruoli apicali e di godere di parità di trattamento salariale. Attualmente il tasso di disoccupazione femminile si attesta quasi all’11% a fronte dell’8,8% di quello maschile.

Non occorre andare molto lontano nel tempo per constatare la veridicità di tali fenomeni. Nel corso del 2020, nel periodo di massima crisi dovuta al primo lockdown, la fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro è stata il doppio di quella degli uomini e, sebbene nella seconda parte dell’anno vi sia stato un parziale miglioramento della situazione occupazionale, questo divario è rimasto. Rispetto al 2019, nel 2020 il tasso di occupazione femminile si è ridotto di 1,3 punti percentuali, mentre quello maschile di 0,7 punti percentuali.

Potremmo guardare il problema in altri termini e dire che sul totale dei posti di lavoro persi lo scorso anno il 55% ha riguardato le donne, ma la sostanza della questione resta e si sostanzia nella disparità di genere.

Un primo aspetto su cui puntare l’attenzione è il fatto che sulle donne ricade il maggiore peso delle cure parentali. Il 38,3% delle madri occupate con figli fino a 14 anni è costretto a modificare il proprio orario di lavoro (ma la percentuale sale al 42,6% tra chi ha figli tra 0 e 5 anni), a fronte dell’11,9% degli uomini con figli in minore età. Tra le donne con figli fino a 14 anni di età, il 35,7% è inattivo ovvero decide di non entrare nel mercato del lavoro o di uscirne, mentre tra gli uomini la percentuale scende al 5,3%. Non se la passano meglio le donne laureate e con figli piccoli: in questo caso il tasso di inattività è pari al 15,3% a fronte dell’1,9% tra gli uomini laureati.

A questi fatti se ne aggiungono altri, corroborati da dati ormai noti. Le differenze salariali a sfavore delle donne sono ormai acclarate.

Secondo Eurostat, nel lavoro dipendente in Italia mediamente una donna percepisce un salario più basso del 5% rispetto agli uomini, ma il differenziale anziché diminuire aumenta al crescere delle competenze e del grado di istruzione acquisito. Se ad esempio si prende in considerazione il comparto dei servizi tecnico-scientifici, nei quali operano anche gli ingegneri, il differenziale salariale raggiunge il 25%.

Non è possibile attribuire almeno una parte delle differenze salariali al fatto che gli uomini accedono agli studi universitari in misura maggiore delle donne e quindi sono per questo più qualificati per ricoprire posizioni apicali. In Italia è l’esatto contrario, visto che nella popolazione tra i 25 ed i 64 anni il 23% delle donne è in possesso di laurea a fronte del 17% degli uomini (se si restringe il campo alla popolazione attualmente più giovane, il distacco delle donne rispetto agli uomini è ancora più ampio). Non solo: nel 2019 del totale di chi si è laureato, il 57% era costituito da donne.

Tra non molto non dovremo neanche più nasconderci dietro il racconto che poche donne affrontano studi tecnico-scientifici, per cui l’offerta di lavoro può rivolgersi solo agli uomini. In Italia attualmente la percentuale di donne tra i 25 e i 30 anni con laurea in discipline STEM è pari al 16,5% delle donne con diploma di laurea; nel complesso dell’area Ocse tale percentuale scende al 12,5%. Sebbene siano in maggioranza gli uomini a laurearsi in discipline STEM, siamo tra i Paesi industrializzati che inizia ad avere una tra le quote più elevate di donne con laurea in ambito tecnico-scientifico ed a questo sta contribuendo non solo l’incremento di donne che si laureano in matematica e statistica ma anche quelle che si laureano in Ingegneria. Negli ultimi anni in Italia il 28% dei laureati in ingegneria è donna; nei primi anni 2000 la percentuale annua si attestava al 16%.

Nel lavoro professionale, almeno dal nostro punto di vista, i divari salariali assumono caratteri critici. Tra i liberi professionisti iscritti alle casse professionali private, secondo i dati Adepp, il differenziale salariale uomo-donna è di ben il 45%. Questo divario è quello che contraddistingue attualmente gli ingegneri iscritti ad Inarcassa. Sulla base degli ultimi dati reddituali procapite disponibili risalenti al 2019, le donne percepiscono un reddito medio annuo di 20.700 euro a fronte dei 38.000 euro degli uomini. Per gli architetti il differenziale salariale è più contenuto ma a livelli comunque elevati, pari al 35%. Il gender pay gap va calcolato sulle retribuzioni medie orarie, un’informazione che per i liberi professionisti non è disponibile. Tuttavia è evidente che a parità di età, esperienza e competenza, una donna in ambito tecnico guadagna considerevolmente meno rispetto agli uomini anche e soprattutto perché se nel lavoro dipendente la conciliazione dei tempi lavoro-famiglia è difficoltosa, nel lavoro autonomo può essere a volte impossibile.

Non è un caso che tra gli ingegneri che operano come liberi professionisti, i differenziali salariali più marcati tra uomini e donne si riscontrano nelle classi fra i 30 e i 45 anni, verosimilmente in concomitanza con gli anni di maternità e accudimento dei figli. Ad una libera professionista, specie nella prima parte del percorso professionale, può essere richiesta una flessibilità (in termini di gestione dei picchi di lavoro e di tempi da dedicare ad essi) difficile da conciliare con gli impegni quotidiani di accudimento della famiglia.

Sebbene alcuni passi avanti siano stati compiuti, come per esempio l’approvazione di recente della legge 162/2021 per l’estensione ai datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti dell’obbligo di trasmissione del rapporto di parità, molto resta da fare soprattutto per le lavoratrici autonome sul piano dell’offerta e del finanziamento di servizi per l’accudimento dei figli e per le cure parentali. Da questo punto di vista il welfare nel nostro Paese risulta ancora fortemente carente: è sufficiente pensare alla cronica carenza di posti per bambini e bambine nelle strutture per l’accudimento della prima infanzia.

Perché serve conoscere questi dati e riflettere in modo costante su di essi?

Se conosciamo meglio le molteplici sfaccettature del problema possiamo modulare meglio politiche e strumenti finalizzati a mitigare i divari di genere. Oggi sappiamo che nella libera professione tali divari sono ancora più acuti rispetto a ciò che accade nel lavoro dipendente. Molte casse previdenziali private hanno risorse sufficienti, pur nel rispetto dei margini di sicurezza e sostenibilità cui sono tenute, per ridefinire il quadro degli strumenti di welfare destinato alle donne ed alle famiglie delle donne che operano nella libera professione. Siamo tutti coscienti, ad esempio, che l’assegno di maternità per le professioniste e qualche bonus una tantum per la conciliazione lavoro-famiglia non incidono sul problema. Un primo passo importante potrebbe consistere nel verificare quali nuovi strumenti a sostegno del lavoro femminile possano essere attivati e quante risorse possono essere eventualmente destinate dalle casse previdenziali private. Redditi più elevati anche per la componente femminile della libera professione porterebbe vantaggi, in termini di incremento del gettito contributivo, alla stesse casse previdenziali.

Più donne nel mercato del lavoro ed una reale eguaglianza delle opportunità genera vantaggi per l’intera comunità, garantisce maggiori livelli di crescita economica e consente di valorizzare nella giusta misura le competenze di ciascuno nel segno di quel principio di meritocrazia sempre invocato, solo per questioni di comodo, nel nostro Paese.

La questione dei divari salariali e di trattamento in ambito lavorativo andrebbe trattata oggi, sia per il lavoro dipendente ma soprattutto per quello autonomo, con una consistente dose di coraggio e con capacità di visione, allargando, in primis, lo spettro degli strumenti di welfare, evitando di dare poco a tutti, perché, esattamente come citava la canzone “Per me piovono rose rosse” non è più il tempo di “accontentarsi”.