La recente crisi dell’inflazione legata agli strascichi della pandemia e alla guerra, ha messo ancora più in evidenza come sia deprimente il rapporto tra salari e costo della vita, costo orami diventato insostenibile sia per le imprese che per le famiglie che per i professionisti. La povertà crescente dei lavoratori e del ceto medio in generale, è emersa anche dal Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro, che è stato presentato alla Camera dei Deputati dal presidente dell’ente pubblico di ricerca Sebastiano Fadda, evento che è stato presenziato anche dalla neo-ministra del Lavoro Marina Calderone.

In Italia infatti, secondo le recenti statistiche dell’OCSE, i lavoratori poveri arrivano a toccare addirittura il 10,8% del totale, contro una media Ue dell’8,8%. Ma non è solo la povertà reale a colpire, c’è anche un’altra povertà più silente che è quella determinata dall’11,3% degli occupati che, a fronte di una media Ocse che si aggira intorno al 3,2% , si trova a svolgere un tipo di part-time non per scelta propria, e questa cosa ovviamente porta ricevere uno stipendio molto più basso rispetto ai reali bisogni dettati dalla sopravvivenza. Inoltre la precarietà la fa sempre da padrone, dato che addirittura il 68,9% dei nuovi contratti che sono stati siglati nel 2021 sono stati a tempo determinato, con solo il 14,8% dei nuovi contratti a tempo indeterminato.

L’impossibilità concreta per molti lavoratori di programmare il proprio futuro è determinata anche dalla ascesa incontrollata, spesso volutamente, delle forme di lavoro atipico che sono tutte a svantaggio dei lavoratori. Infatti, sempre nell’insieme del totale, il lavoro cosiddetto atipico, cioè quello rappresentato da tutte le forme di contratto diverse da quello subordinato a tempo indeterminato full time, rappresenta in Italia l’83% delle nuove assunzioni. Il dato è in costante aumento, essendo cresciuto del 34% negli ultimi 12 anni, un valore non distante dalla soglia del 50%. L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10mila euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro, tutti valori molto bassi se comparati con quelli degli altri paesi europei, paesi dove le situazioni di povertà riscontrate in Italia non sono neanche presenti negli stati di recente democratizzazione come la Romania e la Bulgaria.

Per anni la politica è stata incapace di mettere un freno alla povertà dilagante e non ha mai incentivato forme di detrazione importanti, capaci anche di dare un aumento consistente al potere di acquisto dei lavoratori. Un altro problema è rappresentato dalla tassazione eccessiva e dalle imposte nascoste che tendono sempre di più ad erodere la capacità di sopravvivenza delle famiglie italiane.

Secondo Fadda si è sempre investito in quantità e non in qualità del lavoro, aumentando si la produttività ma a scapito dei lavoratori, “Malgrado alcuni segnali confortanti”, ha commentato infatti Fadda, “alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. Per questo occorre pensare ad una nuova stagione delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati”. La produttività del lavoro – si legge nel rapporto – è cresciuta più dei salari, quindi “non solo la sua dinamica è stata contenuta, ma non sembrano nemmeno aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro“.